La maternità porta con sé delle aspettative spesso troppo idealizzate e poco realistiche, come se fosse impossibile incontrare qualunque tipo di difficoltà e dimenticandosi che diventare madre, per quanto esaltante, è anche un avvenimento pieno di incognite e comporta nuovi compiti di enorme importanza; inoltre, il minimo problema spesso appare come la prova inconfutabile di essere delle cattive madri.
Secondo la terapia cognitivo-comportamentale, i pensieri possono avere un enorme impatto sull’umore e sul comportamento; è importante ricordare che tali pensieri, per essere resi noti agli altri, vanno esplicitati e comunicati, mentre spesso ci si aspetta che gli altri sappiano “leggerci nel pensiero”, creando così enormi incomprensioni, quando invece la soluzione è semplicemente una comunicazione assertiva ed efficace. Inoltre, è utile comprendere che non sempre ciò che ci viene in mente è l’unica spiegazione plausibile, ma che è possibile trovare anche spiegazioni alternative, imparando quindi ad interpretare meglio le situazioni e a trovare il lato positivo di ogni cosa: se il mio compagno calma meglio di me il bambino, ciò non fa di me una cattiva madre, ma anzi è una cosa positiva perché è riuscito ad aiutarmi e il bambino ora sta meglio: ciò ridurrà l’ansia e la rabbia. Le tecniche cognitive servono proprio ad imparare a valutare i fatti in modo più efficace, verificando l’attendibilità delle proprie interpretazioni e mettendo in discussione i pensieri disfunzionali negativi.
Innanzitutto è importante identificare i pensieri automatici che si attivano quando proviamo sentimenti negativi o disturbanti: può essere utile tenerne un diario. Per valutarli e contrastarli, si possono usare due tecniche: una consiste nell’attribuire un punteggio da 0 a 10 ad ogni pensiero negativo, per livello crescente di malessere, verificando quindi l’intensità del proprio stato d’animo e imparando a vedere il mondo non in bianco e nero, ma per gradazioni di grigio; l’altra tecnica consiste nel dare un punteggio da 0 a 10 in base a quanto i pensieri siano credibili e veri, per rendersi consapevoli dei pensieri ai quali è meglio non dare peso, perché non realistici.
Tutto ciò è importante perché chi affronta periodi di forte tristezza, tende a compiere errori di ragionamento nell’interpretare gli aspetti negativi della vita, come se il mondo fosse visto attraverso lenti oscurate. Mettere in discussione questi pensieri negativi, con frasi come “che prove ci sono a favore di ciò che credo?” o “quanto è probabile che ciò che accada?”, è importante per metterne in dubbio la veridicità e per renderli funzionali. Una volta costruiti pensieri funzionali, è utile valutare le conseguenze sull’umore e sul comportamento, identificare l’intensità dell’emozione (che dovrebbe ora essere diminuita) e valutare il grado di convinzione. Altre domande da farsi possono essere “su 100 persone, quante reagirebbero come me?” o “cosa direi ad un’altra persona se pensasse ciò che penso io?”.
È chiaro che modificare i pensieri disfunzionali non significa assumere una prospettiva idealizzata, ma imparare a essere obiettivi e realistici, per valutare correttamente difficoltà e punti di forza. Una volta costruiti i pensieri alternativi, non è necessario esserne automaticamente convinti, ma basta considerarli come ipotesi da valutare: se fatichiamo ad allattare nostro figlio, potremmo chiedere ad altre mamme se anche a loro è capitato e come l’hanno interpretato. I vecchi pensieri disfunzionali potrebbero per un po’ tornare a mente, ma la costanza nel modificarli creerà nuove abitudini di pensiero.
Delle tecniche cognitive che riducono la forza dei pensieri negativi sono l’interrompere il flusso di preoccupazioni e lo stabilire un tempo specifico, durante la giornata, per le preoccupazioni; per rinforzare i pensieri funzionali, è possibile: cercare di notare sempre di più ciò che si è riuscite a fare, ad esempio scrivendo un elenco dei risultati positivi; portare dei bigliettini con i pensieri funzionali da rileggere; farsi del complimenti.
È importante rendersi conto che ci vuole tempo per adattarsi alla maternità e che chiedere aiuto non significa essere una cattiva madre; alla base del malessere ci sono spesso interpretazioni errate delle situazioni, che possono essere messe in discussione per costruire pensieri più utili.