Il mobbing è definito alla luce di comportamenti ripetuti e offensivi (di stampo vendicativo o malizioso) finalizzati all’umiliazione e a porre in uno stato di inferiorità-minorità un individuo o un gruppo di lavoratori (OMS, ILO: Ufficio Internazionale del Lavoro). Il termine fu coniato da Lorenz, che lo descrisse in campo etologico. Edge lo definisce come terrore psicologico sul posto di lavoro, con comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, che vede una vittima calunniata o emarginata, sistematicamente messa in ridicolo di fronte ai superiori, fino ad arrivare a sabotaggio e azioni illegali; lo scopo è sempre distruttivo. È un conflitto che deve avvenire solamente sul posto di lavoro, con frequenza odierna e per almeno sei mesi. Anche la legislazione italiana lo definisce come insieme di atti e comportamenti ostili, aggressivi o vessatori, che creano un clima umiliante e degradante, con l’intento di violarne la dignità personale e di danneggiare l’integrità psicofisica: ecco il legame molto stretto tra mobbing ed evidenze scientifiche psicologiche. Il Codice specifica che debba esserci un nesso causale tra il comportamento e il danno arrecato al lavoratore, inserendo il fenomeno in un preciso piano vessatorio, ledendo il lavoratore con animus nocendi. Tale volontà di nuocere viola inoltre i vincoli contrattuali tra datore di lavoro e lavoratore, che sottoscrive generali clausole di correttezza e buona fede. Dal punto di vista civilistico il mobbing viola l’articolo 2087 del c.c., che pone un generale obbligo di sicurezza sul lavoro. Bisogna perciò svolgere una valutazione che evidenzi tutti i rischi connessi alla salute, considerando anche fattori di stress lavoro correlati e di stress psicosociale a lavoro. Anche la Costituzione tutela il lavoro come bene essenziale per la sua stessa sopravvivenza, essendovi fondata. Esistono anche conseguenze a livello penale per lesioni per le quali si verifichi malattia del corpo e/o della mente: la tutela legislativa pone quindi la salute psico-fisica al centro. Esiste poi tutta una serie di figure che si occupa di consulenza, assistenza e prevenzione di questioni inerenti la salute del lavoratore, quali ad esempio gli psicologi del lavoro, anche se ancora non esiste una chiara legislazione che ne regolamenti nello specifico il ruolo (infatti anche sociologi, giuristi ed economi possono lavorare nelle risorse umane).
Tornando al mobbing: dal 2011 al 2016 sono stati registrati più di 38mila casi in Turchia; dati del 2018 riportano una prevalenza del 5/10% in Europa, 50% in USA, 4% in Italia: questo 4% non è poco, perché il mobbing è legato a seri disturbi psicologici, che possono far “ammalare” la società, con nuovi costi per la politica; per prevenire, è importante modificare il modo di fare impresa e economia, perché non basta limitarsi a intervenire dove esistano potenziali rischi. Le più colpite da mobbing sono donne tra 34 e 45 anni, soprattutto se laureate; potrebbero esserci tre motivi: un fattore femminista quale la persistente cultura del patriarcato che prevarica le donne; un fattore sociologico secondo cui le donne sono esposte a maggiori responsabilità (casa, figli, lavoro), e quindi stress; un terzo fattore psicologico: le donne parlano molto di più dei loro problemi, mentre gli uomini potrebbero preferire tacere il problema. I laureati probabilmente sono più colpiti in quanto riescono meglio, grazie alla loro più ampia cultura, a riconoscere e denunciare questi fenomeni. Lo stress sul lavoro può portare a svariate problematiche, mediche e psicologiche/psichiatriche; in particolare, il mobbing pare correlato al PTSD, con evitamento dei luoghi e delle persone che potrebbero riattivare il ricordo traumatico, oltre che depressione, somatizzazioni e ansia.
Ci sono quindi una serie di fattori psicosociale che può incidere sul clima lavorativo: Karasek fornisce un modello bidimensionale, che considera la richiesta lavorativa e la “latitudine decisionale”, cioè la distanza tra il lavoro richiesto ed il potere del singolo di assumere decisioni autonome su tale lavoro (cioè quanto può gestirselo); ci sono quindi tre tipologie di lavoro: lavori ad alta sollecitazione (alta richiesta, ma basso controllo, che aumenta lo stress); lavori attivi (richiesta adeguata al controllo e all’autonomia del lavoratore, motivanti e stimolanti); lavori a bassa sollecitazione (richiesta bassa rispetto alle capacità e al controllo del lavoratore, che si sente demotivato e sottostimolato). Johnson amplia questo modello individuando la terza dimensione del “supporto sociale lavorativo”, fornito da colleghi (orizzontale) e responsabili (verticale); quest’ultimo è più efficace come fonte di rinforzo positivo per i lavoratori: in senso psicoanalitico, il capo rappresenta il padre e agisce come oggetto-sé a supporto del Sé del lavoratore, rendendolo più resiliente ad eventuali stress. Siegrist offre poi un modello basato su sforzo e ricompensa, modello ERI (Effort-Reward Imbalance), di semplice comprensione perché mette in relazione lo sforzo richiesto al lavoratore e la ricompensa offertagli. Questi modelli hanno ricevuto alcune critiche perché non considerano la classe di appartenenza del lavoratore e l’ambiente psicologico stess (es tratti di personalità e resilienza personale).
Ampliando la critica al mondo del lavoro in generale, la società capitalistica è particolarmente abbinata a fenomeni di mobbing: interventi che minimizzino i rischi di mobbing o di molestie sono inutili se non sono inseriti in un’idea più importante e alta che possa guidare le aziende: tutti i modelli infatti risentono dell’esigenza capitalistica di produzione, che di declina nei termini di efficacia ed efficienza del lavoratore. Sono sicuramente aspetti importanti, ma si rischia di dimenticare che si sta parlando di persone, tant’è che la legislazione parla di “lavoratore” o di “risorsa di mercato”: è un pensiero che Marina Valcharenghi definirebbe “maschile”, cioè atto ad analizzare, creare ordine, scomporre, come un codice binario 0-1 piuttosto che un pensieri analogico che voglia recuperare le relazioni e le somiglianze tra gli oggetti (“femminile”). Bisogna pensare alla fabbrica come ad una comunità, un luogo nella cultura e nella cittadinanza, con un imprenditore padre e anche madre, che faccia del luogo di lavoro un luogo di efficacia ed efficienza, ma mai in misura maggiore rispetto al valore della cultura.
Per tornare al concetto di mobbing, esistono tre soggetti: vittima, prigioniera, passiva, ipocrondiaca; il mobber, che può essere istigatore, collerico, sadico; il testimone. Il mobbing può essere orizzontale (dai colleghi) o verticale (dai superiori), oppure essere strategico, cioè mirato alle dimissioni della vittima. Secondo Edge, il mobbing si sviluppa in fasi:
- Conflitto mirato: scelta della vittima
- Inizio: la vittima comincia a percepire disagio
- Sintomi psico-somatici
- Errori ed abusi dell’amministrazione del personale
- Situazione di malattia conclamata (fino alla depressione)
- Esclusione dal mondo del lavoro
Oltre al mobbing, esiste lo “straining”, cioè una situazione di stress sul luogo di lavoro: anche comportamenti negativi che non raggiungono l’intensità del mobbing vanno tenuti in considerazione.
Meno valutato è l’aspetto della prevenzione, nonostante esistano alcune linee guida quali: appendere cartelli informativi per riconoscere il fenomeno o organizzare corsi formativi sulla tematica e sulle conseguenze e la legislazione. Tuttavia ciò non basta: serve integrare i ruoli di psicologo e psicoterapeuta, perché il lavoratore è prima di tutto una persona. Bisogna, in ogni azienda, creare una cultura, una comunità, che possa coniugare la crescita umana e la crescita economica. Il mondo di oggi, invece, sta attraversando una fase schizo-paranoide, con difese come scissione e onnipotenza, proiettando fuori di sé il seno cattivo e attivando l’angoscia paranoide nei confronti dell’altro.
Il lavoro deve permettere di “trovare se stessi”, come nella teoria marxista, astraendosi grazie al processo produttivo e inserendosi così nell’ambito della cultura: il lavoro è perciò molto più di ciò che comunemente si intende ed è centrale nella possibilità stessa della società di esistere e di sopravvivere; ecco perché il luogo di lavoro va considerato come un luogo di crescita. Certo, la prevenzione del mobbing non può avvenire qualora non si cambi radicalmente la prospettiva che guida l’azione economica: il lavoratore non deve più essere solo risorsa di mercato, ma persona integrata nell’azienda che diviene comunità di destino, destino attraverso il quale l’uomo e l’umanità realizzano se stessi.
Per permettere la crescita dell’operaio e dell’azienda e della comunità è necessario integrare le figure professionali che possono guidare nell’intercettare distorsioni rispetto alla tendenza naturale dell’uomo e del suo sviluppo: sono coloro che appartengono alle scienze umane. Si è ancora lontani da ciò e infatti gli psicologi del lavoro si dedicano alla selezione del personale, piuttosto che studiare come migliorare un pensiero imprenditoriale che coniughi il valore della persona e la necessità di crescita, includendo sì un aspetto economico, ma ampliandolo al fine di attribuire valore alla persona in quanto tale. L’azienda può realizzare il suo destino di comunità, prevenendo anche il mobbing: bisogna considerare tratti di personalità e resilienza del singolo, intendendo il mobbing come condizione di stress che uno specifico lavoratore non riesce a tollerare a causa della sua peculiare personalità: ecco perché sarebbe importante inserire la psicoterapia in azienda, per farsi carico della comunità che sorge in essa. L’imprenditore (l’etimologia è “abituato a prahendere”, cioè farsi carico) è interessato all’attività economica, ma essa si realizza mediante il lavoro, che è il centro della possibilità dell’uomo di realizzarsi: quindi, si fa carico anche del lavoratore in quanto persona. E’ però necessario sicuramente uno scambio tra imprese e Stato, per poter considerare davvero i fattori psico-sociali alla base del mobbing e di tutti i comportamenti che arrecano danno alla dignità del lavoratore.