Oggi la tecnologia non è più uno strumento, ma un’estensione virtuale della mente umana che si intreccia con il mondo reale, con la capacità di ridefinire la costruzione dell’identità e delle relazioni. Levy sostiene che virtuale non sia il contrario di reale, ossia virtuale non significhi inesistente, bensì esente da coordinate spazio-temporali precise.
Il Cyberspazio e la sua potenzialità interattiva possono rendere l’utente attivo, con una comunicazione ipertestuale, ipermediata e particolarmente veloce; inoltre, dà possibilità di anonimato o di assumere molteplici identità, sperimentando anche emozioni nuove.
L’uomo del terzo millennio è ormai “homo tecnodigitalicus”, con potenzialità mentali e sensoriali amplificate.
Le ricerche mettono in relazione l’uso di internet e il livello di relazione sociale, nonché la possibilità di consolidare vecchi rapporti o crearne di nuovi; ma ci sono anche effetti negativi: la reperibilità immediata di informazioni può essere un fattore di rischio per lo sviluppo di condotte disfunzionali, tanto che il 100% di un campione di soggetti che consumano sostanze avrebbe utilizzato internet per ricavare informazioni su rischio e modalità di consumo; inoltre, sono nati fenomeni quali cyberbullismo, condivisione online di comportamenti a rischio e confronti auto-denigratori con gli altri.
L’Osservatorio Nazionale Adolescenza ha svolto una ricerca su 8000 ragazzi: il 98% tra i 14 e 19 anni ha avuto uno smartphone a partire dai 10 anni di età, nonostante non abbiano ricevuto una preparazione preliminare per educare e sensibilizzare ai pericoli del web.
Una ricerca di AVG Digital Skills Study afferma che le capacità dei bambini odierni sono molto diverse da quelle dei bambini di 20-30 anni fa: non sanno nuotare o allacciarsi le scarpe, ma sanno usare pc, videogiochi e smartphone.
Oggi l’uomo vede cambiare le proprie abitudini, in quanto adegua le proprie funzioni cognitive a quelle della tecnologia; essenziale quindi approfondire questi cambiamenti e le possibili ripercussioni psicopatologiche. Se tecnologia e social network hanno annullato le distanze, promuovendo la socializzazione e innescando un senso di appartenenza, questa continua condivisione può generare atteggiamenti competitivi, soprattutto in persone con tendenze narcisistiche, paragonando continuamente le proprie esperienze con quelle altrui.
La FOMO (Fear of Missing Out) descrive proprio la paura di essere tagliati fuori, il non saper apprezzare le esperienze offline, per cui chi la prova ricerca continuamente un contatto col cybermondo, controllando continuamente ogni aggiornamento sui social: può scatenare anche disordini emotivi quali agitazione, rimpianti, invidia (Sherry Turkle).
I livelli di FOMO sono elevati nei giovani, specialmente maschi e con bassi livelli di soddisfazione della propria vita, frutto del bisogno psicologico universale di percepirsi in relazione con gli altri, a scapito però della propria intimità: 5 adolescenti su 10 ritengono normale condividere tutto ciò che fanno, compresa la loro intimità, scattandosi, nella fascia 14-19 anni, circa 5 selfie al giorno.
L’oversharing (condivisione eccessiva di informazioni) è segno di un forte desiderio di apparire e mostrare il meglio di sé, fino a costruirsi una vita ideale, perennemente sottoposta al giudizio altrui: tanti like accrescono l’autostima, la popolarità ed il senso di sicurezza personale. Ne deriva che i giovani sono disposti, pur di avere un feedback positivo, a diete drastiche o selfie pericolosi: ecco le “challenge”, che possono comportare conseguenze rischiose, come ad esempio sfide alcoliche, ingaggiate da 1 ragazzi su 10, o sfide di dimagrimento per 5 ragazze su 10.
Questa spinta alla condivisione deriva dall’attivazione di aree cerebrali deputate al piacere: raccontando di sé e delle proprie idee si nota un’attivazione del nucleo accumbens, che fa parte del sistema limbico e riceve afferenze dalla corteccia prefrontale e dai nuclei dopaminergici dell’area tegmentale ventrale, svolgendo un ruolo di rilievo nei circuiti di rinforzo, che provocano un aumento della dopamina, neurotrasmettitore del piacere; raccontare di sé è piacevole quanto mangiare o fare sesso. Al contrario, non essere raggiungibili provoca paura, disagio e senso dii inadeguatezza: nasce la nomofobia (No-mobile-phone), o sindrome da disconnessione, cioè la paura di restare senza telefono o connessione, che può essere accompagnata perfino da sensazioni fisiche simili all’attacco di panico.
L’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullismo distingue tra dipendenza e attività ponderata dell’utilizzo dello smartphone, in base a: l’uso regolare del cellulare, l’avere sempre con sé più dispositivi e il caricabatteria, il mantenere sempre il credito, l’esperire ansia e nervosismo al solo pensiero di non poter utilizzare la tecnologia, il monitoraggio costante del cellulare, il tenerlo acceso 24 ore al giorno, l’andare a dormire con cellulare o tablet a letto e l’uso dello smartphone in posti poco pertinenti. Nonostante il suffisso “fobia” faccia pensare alla nomofobia come un disturbo d’ansia, pare invece essere più simile ad una dipendenza patologica (King, Valença, Nardi, 2010). Secondo David Greenfield, l’attaccamento allo smartphone sarebbe simile a tutte le altre dipendenze, poiché interferisce con la produzione di dopamina: l’arrivo di una notifica ne alza i livelli, per cui c’è il costante impulso a controllare se ne siano arrivate. Legato alla nomofobia è il Vamping, in italiano “vampireggiare”: i ragazzi rimangono svegli tutta la notte per socializzare e chattare; il 62% degli adolescenti chatta, gioca, guarda serie tv fino a tarda notte e il 15% si sveglia apposta per controllare le notifiche sui social network. Il Vamping ha creato una sorta di cybercomunità notturna, con hashtag specifici e con ripercussioni negative su quantità e qualità del sonno, interferendo poi con la quotidianità dei ragazzi, provocando difficoltà di concentrazione e attenzione; inoltre, sembra favorire l’insorgenza di stati ansiosi e difficoltà nel controllo degli impulsi, con aggressività e predisposizione all’uso di sostanze.
Possiamo poi descrivere la “Social Network addiction”, dipendenza legata al connettersi e aggiornare il proprio profilo, con veri e propri sintomi di tolleranza, astinenza e craving. In generale un uso eccessivo dello smartphone può favorire conflitti interpersonale: con phubbing (da phone e snubbing) si intende l’atto di ignorare o trascurare l’interlocutore per concentrarsi sullo smartphone; tale fenomeno può incrementare i conflitti di coppia e favorire lo sviluppo di disturbi depressivi, configurandosi inoltre come forma di esclusione sociale. In conclusione, la partecipazione ai Social Network permette di mascherare le proprie ansie e preoccupazioni legate alla percezione di sé, rafforzando in proprio ego; di contro però può alterare le sfere di vita personali, con tendenza all’isolamento sociale e alterando la visione dei rapporti affettivi e sociali.